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ALBANIA: QUELLA LINEA SOTTILE CHE A VOLTE CI DIVIDE

Di Valeria Bruno. Ognuno ha i propri tempi per fare esperienze nella vita e, seppur ormai sia un concetto consolidato da anni nella tua mente, ogni volta te ne ricordi e aggiungi al bagaglio l’ennesimo tuo tempo, quello giusto per te. Cinque anni di studi, tre tirocini e due lauree. Ti senti comunque impreparata, parti consapevole di non essere pronta al cento per cento. Come quando ti alzi la mattina di un esame, che proverai a sostenere sperando in domande a cui sai rispondere perché altrimenti devi tornare al prossimo appello. Non credo di aver mai vissuto una tale esperienza, provato una tale sensazione. Almeno fino al 2 Agosto.

Il primo mese, come ogni prima volta, fa un po’ paura e un po’ emoziona. Non sai dove e come mettere i piedi, devi imparare a camminare quando invece vuoi buttarti a capofitto perché non vuoi perdere tempo. Hai voglia di apprendere, tutto e subito. Vuoi sentirti parte della comunità. Invece, grazie alla paura, rispetti i tuoi tempi e a poco a poco rubi con gli occhi, conosci ancor di più i tuoi limiti e impari a riconoscere quali si possono superare. E non vale solo per te stessa. Inizi a comprendere i loro di tempi, i loro modi – che possono sembrare invadenti – e invece apprezzi il loro essere se stessi. Soprattutto, impari a rispettare realmente ciò che sono le usanze del posto. Nonostante la voglia di abbattere quelli che tu chiami limiti altrui, sai che non potrai usare alcuna bacchetta magica per cambiare alcune situazioni. Devi chiudere gli occhi? No, li tieni ben aperti, e ne fai tesoro. Le contraddizioni che senti, vedi e provi, diventano improvvisamente strumenti per riflettere su quanto tu sia e sia stata fortunata, in alcuni casi. O quanto tu sia stata cieca finora; quanto siano state cieche tante di quelle persone accanto a te. Quanto forse gli stereotipi storici e sociali definiscano alcuni luoghi come destinatari e altri come portatori di aiuto, dimenticandosi di parlare di realtà così vicine e allo stesso tempo così lontane.

Agosto 2021 lo ricorderò probabilmente come il primo mese di alcune prime volte. Chiudere le valigie con il necessario per un anno fuori, per una convivenza, per un contratto, per partire dopo due anni di brevi e piccole aperture sul mondo. Casa mia, pensarlo in un posto lontano da tutte le persone che ti hanno accompagnata finora. Imparare la lingua direttamente sul posto, cercando di leggere correttamente l’etichetta dei prodotti nel Super Market e chiedere conferma alle commesse. Cercare di capire quanto tu debba spendere senza cedere alla tentazione di guardare lo schermo o lo scontrino.

Partire per due settimane con un gruppo di persone che sai non rivedrai, almeno non presto. Che sai non saranno i beneficiari del tuo servizio, piuttosto saranno loro ad insegnarti molte cose in quindici giorni, ad aprirti gli occhi su chi sei e forse su cosa vuoi in futuro. Ma anche qui, parti e ancora non lo sai che imparerai a svegliarti la mattina e dire mirëmëngjes, pronta a lavorare circondata da diverse disabilità riconosciute e diagnosticate quando l’unica disabilità che senti è la tua perché non sai ancora come approcciare. Perché non hai mai lavorato con persone disabili, non hai nemmeno mai voluto pensando non fosse l’ambito giusto per te. Alla fine, bastava lasciarsi andare alla tenerezza e agli abbracci. Ai giochi semplici, puri, improvvisati. Ai balli in cerchio. E sì, faceva per te, in qualche modo.

Razëm è stato un luogo immerso nella natura e nella bontà delle persone. Un luogo che ha aiutato il mio entrare in contatto con le tradizioni albanesi. Un luogo in cui le sere di Agosto hanno rinfrescato il corpo, i pomeriggi hanno scaldato il cuore e le persone hanno risvegliato la voglia di lavorare nella pratica. Come quando invece di sederti e mangiare cibi pronti, vuoi tornare a cucinare sporcandoti le mani, arrotolandoti le maniche per impastare, oliare e farcire. Questo sembra essere, ai miei occhi, il servizio qui in Albania. Un ritorno alla pratica, a tratti faticosa, a tratti leggera e soddisfacente.
O ancora, a tratti ti senti inutile, come quando aspetti che il forno si riscaldi; osservi, aspetti, sai che il risultato sarà ottimo ma non lo dai per scontato. Qui non si dà per scontato.

Qui le persone guardano a fondo. Scavano dentro. Inconsapevolmente ti spogliano delle barriere, ti aiutano a slegarti dai pesi che ti tengono inchiodata nel solito punto, nella tua confort zone.

Quando qualcuno parte si usa dire o pensare, se non sbaglio, “ci lascerai un pezzo di cuore”. Lasciare un qualcosa di me non so quanto si concretizzerà dopo un anno qui. In tal caso non posso immaginare cosa lascerò, ma posso dire che qualcosa invece già lo porto con me. Che in un mese ho forse avuto la fortuna di dedicare un pezzo di me a queste persone, a questi posti.

Esiste un Noi quando esiste un Loro, per differenziarci. Non ricordo dove io abbia sentito questa frase, e non so neanche dire se io sia d’accordo o meno. Forse in alcune circostanze sì, bisogna rafforzare quel noi contrapposto a un loro, un noi semplicemente diverso da un loro.

Qui, a poco più di un mese di distanza dal mio arrivo, sento ancora i piedi camminare in bilico sulla linea sottile che divide questo grande Noi – l’Albania – e un Loro sempre percepito mio – l’Italia – a cui oggi rivolgo uno sguardo critico.

Un Noi che sto imparando a conoscere, rispettare, memorizzare, assaporare. Un Noi che spero di poter sentire, almeno in piccola parte, mio a fine anno. Un Noi difficile da comprendere a fondo, e per questo sento una sorta di risentimento nei confronti di quel Loro che è da sempre casa per me.

Un Loro che ha avuto un ruolo nella storia di questo Noi pieno di vita, un ruolo che sembra invisibile agli occhi di chi non ha la fortuna di incontrare le persone del luogo.
Io stessa ignoravo, scordavo, non guardavo, tale storia. Io, adesso, non voglio allontanarmene per quanto sia affascinante.

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