TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI ALESSIA
‘’Sono gli occhi a parlare’’ di Alessia Rossi, Fier (Albania)
Ciao, sono Alessia e ho 25 anni. Sto svolgendo il mio anno di Servizio Civile Universale a Fier, in Albania. Tante sono le emozioni che sto vivendo da quasi cinque mesi ad oggi. Sensazioni difficili da descrivere e raccontare. Perciò preferisco portarvi in viaggio con me, per qualche ora raccontata in una pagina di diario di un mio giorno quotidiano a Fier.
Prima però una piccola introduzione. A Fier siamo in quattro civilisti; Daniel, Federica, Sara e io. Stiamo svolgendo un progetto che ha alla base l’obbiettivo di integrazione di soggetti fragili. Forniamo supporto a bambini/e Rom (di seguito chiamati in albanese fëmijië in quanto termine comprensivo sia di maschi che femmine) che abitano principalmente a Drize, il villaggio con concertazione più alta di Rom di Fier.
Aiutiamo le fëmijië nel processo di alfabetizzazione in una scuola nelle vicinanze, nel villaggio di Zhupan. Parte del progetto è fare supporto presso il Qendra Horizont, in cui una volta a settimana interagiamo con bambini/e con disabilità.
In questa mia giornata racconto una mattina a Zhupan, affiancando le fëmijië Rom. Alcuni nomi sono stati oscurati per non avere pregiudizi.
04.12.2024
“Una nuova mattina inizia a Fier. Daniel, Federica, Sara e io usciamo di casa: aspettiamo l’ascensore con due minuti di ritardo rispetto alle solite 06:57. Scendiamo a passo spedito incamminandoci verso il QTU, dove saliamo sul furgon con l’autista Krenar. Vediamo i medesimi “cani della rotonda” che abbaiano alle macchine seguite da accenni di sorrisi. Di fronte a noi un mercato inizia a prendere vita; si sentono versi di animali da allevamento. In questo periodo ci sono tanti tacchini, in quanto in Albania durante le festività natalizie è tradizione mangiarli in famiglia.
Krenar, arriva con il solito furgon blu, con i vetri oscurati; l’ultimo finestrino sulla destra ha però un cerchio trasparente, da cui Elisjon qualche giorno fa, partendo da Zhupan per tornare a casa a Drize, mi mandava dei baci. Krenar ci saluta sempre con un sorriso seguito dalla solita interazione che si ha in albanese al mattino, ovvero mirëmëngjes, si je? Cerchiamo di avviare una conversazione fatta di tanti gesti e ripetizioni di parole. Ma piano piano riusciamo a capirci sempre di più.
Le fëmijië Rom che vengono a Zhupan sono tant*, perciò dobbiamo passare due volte per Drize. Durante il primo viaggio il punto di incontro è tra dei binari di una ferrovia, non funzionante. Alla destra c’è una casa, con divani sul balcone e porte aperte. Al suo esterno, ogni giorno è vissuta da persone diverse. Recentemente, sono seduti intorno al fuoco acceso per scaldarsi. Una donna ci saluta, facendo un piccolo balletto e alzando le mani. Eppure, ha gli occhi così stanchi e gonfi.
Salgono le fëmijië. Melisa, una bimba dolcissima, si mette dietro il mio sedile e mi tiene la mano. La seconda domanda che mi chiede sempre è sot klasa ime? Nel mentre Rafaela ruba un bacio sulla guancia a Federica. Un bacio che ha il sapore di caffè. Rafaela ha 9 anni, occhi grandi, profondi e dei capelli lunghissimi. Ha una tuta in velluto blu. L’altro giorno l’ho vista cucinare da sola nel giardino di casa sua.
Proseguiamo per raggiungere la scuola a Zhupan. Mi piace tanto la luce che c’è al mattino. Musica albanese ma anche spagnola ci accompagna. Cani randagi per le strade; sempre molti e disorientati. Dal finestrino entra la solita aria pesante di petrolio. Ebbene sì, non ricordo se l’ho menzionato in precedenza ma l’odore di petrolio è molto forte, in quanto vi sono parecchie aziende che traggono vantaggio dai terreni particolarmente ricchi a Fier.
Le fëmijië del primo giro scendono, indirizzandosi ai piccoli bar dentro la scuola. Ripartiamo a prendere le restanti. Durante il secondo viaggio, Natalia, una ragazza di 13 anni con un piercing al naso e capelli neri lunghissimi, mi parla in francese. Mi sussurra tu est très belle!
Arrivati a scuola alle 07:35, scendiamo e stiamo nel cortile a chiacchierare e giochicchiare con le fëmijië. Il sole è tanto caldo oggi, così mi appoggio al muretto con altre quattro bambine e stiamo ferme a sentire il caldo sulla nostra pelle. Chissà se è il primo calore che sentono dopo il freddo della notte.
Come di routine, prima di entrare sono tutti in fila per classe; oggi però, dato che è lunedì, cantano l’inno.
Una maestra suona la campana che tiene tra le mani ed entro in classe. Oggi sono in 3°A, la classe che abbiamo seguito fin dall’inizio con la maestra Alma. Daniel va in 2°, Sara in 3°B e Federica in 1°. Mi siedo, sempre all’ultima fila seduta tra due banchi. Alla mia destra c’è Xhoel, accanto Luis. Alla sinistra ho Korina, una bambina che viene a scuola da poco, con occhi così grandi. Non sa l’alfabeto e nemmeno i numeri. Parla poco albanese. Le scrivo il suo nome e mi guarda stupita. Nel mentre mi tiene la mano e si appoggia sulla mia spalla. Eppure, nonostante non riusciamo a capirci, nel momento in cui la guardo nei suoi occhi così profondi, mi sembra di capire così tanto. Continuiamo la mattinata, passando da gjihua, a matematik. Scrivo le lettere in rosso sul quadernetto, e le fëmijië ricopiano piano piano. Ergi sta iniziando a scrivere in corsivo.
È l’ora della pushim. Vado a prendere con Federica un byrek da Alda, una ragazza che lavora ad uno dei due baretti. Quattro ragazzi di 14 anni stanno giocando a carte, atteggiandosi come adulti ma bevendo fanta. Mentre mangio gioco con E., bambina dal sorriso tenero ma con una vita da donna. Con la voce sottile, mi racconta che quando lei è a scuola la sorella non c’è perché si alternano a fare l’elemosina. Continuiamo a giocare. Ci fermiamo, e ci guardiamo negli occhi. Un muro scende, la vedo.
In lontananza il “gruppo dei più grandi” (13-14 anni) mi manda i baci. Si avvicinano, ridono e scherzano tra di loro ed Elisjon mi traduce in tedesco ciò che dicono. Lo parla perché è andato qualche anno in Germania. Nel mentre Athina corre da me e mi porta a giocare con un ulivo. In Albania è pieno di ulivi; è un simbolo di radici profonde, resilienza e continuità. Giochiamo insieme, e ci sediamo sulla panchina. Mi tiene le mani e ci guardiamo. Vedo il mio riflesso nei suoi occhi.
Rientriamo in classe e continuiamo con la mattinata. Rafaeli ed Emili mi scarabocchiano segni sulle braccia. Nel mentre si impegnano a fare ciò, sento le loro mani calde avvinghiate alle mie. E quando finiscono restano fermi così, in un silenzio carico di significato. È stato l’amore, dopotutto, la chiave che ha aperto ogni porta, che ha costruito ponti. Una cosa tanto semplice da pronunciare, ma incredibilmente complessa da vivere e da comprendere.
Alma inizia a chiedere alla classe cosa amassero fare o cosa avrebbero voluto fare in futuro. Molti bambini rispondono “giocare a calcio” (soprattutto diventare come Ronaldo). Ergi, 8 anni, che spesso canta e durante l’estate si esibisce con i fratelli e il papà ai matrimoni, pensavo avrebbe menzionato proprio questo. E invece disse che cantare non gli piaceva più, perché ormai lo considerava un lavoro.
Eppure, c’è qualcosa di magico che accade quando la musica riempie il loro spazio. Sembra dissolvere il peso del mondo, come se fermasse il tempo. Si crea un cerchio invisibile, un rifugio dove la solitudine non esiste. E in quel cerchio, mi scopro non solo spettatrice, ma parte integrante, in cui il tempo sembra quasi un’illusione.