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TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI CHIARA

 

‘’Ridare dignità oltre i confini’’, di Chiara Di Ninno, Servizio Civile UniversaleIbarra (Ecuador)

 

L’Ecuador è un piccolo paese nel Sud America con una colonna vertebrale fatta di Ande che lo divide in Oriente, dove il Pacifico bacia le sue coste, e Amazzonia. La Sierra è una regione nel mezzo del paese che si allunga tra la Colombia e il vicino andino Perù, una regione suddivisa in dieci province in base alla catena montuosa o vulcanica che compone questa schiena frastagliata. Per un lungo periodo ho vissuto nella provincia di Imbabura, nella città di Ibarra sovrastata appunto dalla cima della montagna Imbabura che sorveglia silenziosa i suoi quartieri.

All'inizio di agosto sono entrata in questa nuova città, in una realtà oltreoceano e differente, tranquilla nonostante i bassi delle canzoni reggaeton che escono a tutto volume dalle casse nere dei negozi.  Ibarra, a un primo sguardo, appare una città assopita, quasi disillusa. Le sue strade sembrano scorrere lentamente, come se la politica e la protesta fossero concetti estranei. Ma è sufficiente scavare un po' più a fondo per scoprire una rabbia sotterranea, una tensione latente che comincia a emergere. Questa rabbia è figlia di un passato coloniale mai del tutto elaborato, un'eredità che plasma ancora oggi le disuguaglianze e il sentimento di oppressione di molte comunità indigene e afro discendenti.

Sto svolgendo il mio servizio civile all’interno della organizzazione Consejo Noruego para Refugiados (NRC), la quale si occupa di fornire alle persone straniere nel paese un orientamento legale circa i processi di regolarizzazione che possono intraprendere e i diritti che sono loro garantiti. Il lavoro è tendenzialmente d’ufficio, apparentemente tecnico e delle volte monotono ma che, in realtà, nasconde una densità di implicazioni sociali e personali che mi portano a riflettere profondamente sul concetto di frontiera e sulla disuguaglianza che essa può generare. 

A partire dal 2018 l’Ecuador è attraversato dall’Oriente all’Occidente da una grande emigrazione proveniente principalmente dalla Colombia e dal Venezuela, che ha esacerbato una crescente tensione all’interno del Paese.

La crisi venezuelana, iniziata alla fine degli anni 2010, ha creato un flusso migratorio senza precedenti, con milioni di venezuelani che hanno cercato rifugio in paesi vicini. Secondo i dati dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), prima della pandemia e ancora oggi, oltre 2.000 persone attraversano giornalmente il ponte di Rumichaca, un ponte che si trova nella regione Carchi al confine tra la Colombia e l’Ecuador, anche se questo numero può variare a seconda delle circostanze politiche, economiche e sociali. Il ponte di Rumichaca è diventato simbolo di come incertezza e speranza si mescolano nel cammino di una persona che decide di migrare e allontanarsi dalla propria casa.

Personalmente ho sempre sostenuto che il diritto al libero movimento fosse una prerogativa fondamentale di tutti gli esseri umani, riconoscendo tuttavia la barriera sostanziale che le frontiere sono nel raggiungimento di esso. Attraverso i pochi mesi di servizio all’interno di NRC non solo ho dato sostanza a questo concetto ma ho osservato come l’importanza che un passaporto o una “cedula” (carta d’identità) fanno nella possibilità di integrarsi in una società. 

Il contesto di accoglienza è sempre stato supportato dalle varie organizzazioni umanitarie che operano su tutto il territorio nazionale, tale situazione ha però subito un cambiamento drastico con l'inizio del nuovo mandato negli Stati Uniti. Durante il mese di febbraio il governo Trump ha congelato i fondi destinati alle organizzazioni non governative del centro e sud America, le quali sono state costrette a effettuare numerosi tagli ai progetti. Lo stesso Consejo ha dovuto procedere a una ristrutturazione interna e in conseguenza di ciò, l'ufficio di Ibarra è stato chiuso e noi volontarie siamo state trasferite a Quito.

La chiusura dell'ufficio ha avuto un impatto significativo, non solo dal punto di vista personale, ma soprattutto sul piano locale dove si è creato un grande vuoto nell’assistenza legale a persone straniere. È proprio questa consapevolezza che motiva me e le mie colleghe a impegnarci a portare avanti quello che dovrebbe essere un servizio fondamentale per l’accoglienza. 

Uno degli aspetti più complessi del mio servizio civile è imparare ad accogliere le storie personali degli utenti che assisto giornalmente, apprendendo meccanismi per elaborarle emotivamente e permettermi di non cadere in un assistenzialismo pietistico. Ridare dignità alle persone che migrano è uno dei principi base del Consejo che con il suo operato cerca di rendere autonome e indipendenti le persone che si rivolgono all’associazione.

L’inserimento in questo contesto non è stato semplice. Mi sono sentita spesso estranea, incapace di comprendere appieno dinamiche così complesse, e a volte colpevole del privilegio che la mia origine mi conferisce. Ma ho imparato che la chiave sta nell’ascolto e nella capacità di entrare in punta di piedi, senza voler prevaricare. Qui, più che mai, il mio ruolo non è quello di salvare o risolvere, ma di aggiungere la mia forza a quella delle persone che ho incontrato, di sostenere senza mai spodestare.

Questo equilibrio fragile tra consapevolezza del privilegio e desiderio di contribuire è forse la lezione più grande che porto con me. Perché il servizio civile non è solo un’opportunità di dare, ma anche un processo profondo di apprendimento e trasformazione personale. 

 

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