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TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI FEDERICA

 “Desayuno e Pranzo a Puma Kucha” - di Federica Ferrari, Lago Agrio (Ecuador)

La sveglia delle 6 del mattino suona, ma io sono già sveglia dalle 5. In Amazzonia, il sonno è breve, ma lo accetto volentieri. La mattina è il momento più fresco della giornata, nonché l’ultimo, e mi piace godermelo nel nostro giardino, ascoltando gli uccellini che si svegliano.

Oggi è un giorno speciale, sebbene ogni giorno sia prezioso. Sto svolgendo il mio Servizio Civile Universale presso la Pastoral Social Caritas di Nueva Loja, dove le giornate si alternano tra innumerevoli attività di ENGiM con le comunità di Sucumbíos. Il progetto tratta di sviluppo rurale e oggi è il turno della mia comunità indigena preferita, Puma Kucha. Insieme ai miei colleghi di lavoro, stiamo conducendo l’ultimo seminario del programma “Huertos familiares” di ENGiM, parte integrante del progetto “Aliados por la Casa Común.” Abbiamo lavorato con diversi beneficiari delle comunità della provincia di Sucumbios, insegnando loro come costruire e coltivare orti sostenibili ed ecologici nelle loro fincas (giardini).

In questa ultima sessione, il nostro obiettivo è cucinare con i prodotti dei loro orti, seguendo ricette del luogo create da Cristian, uno chef che si è innamorato dell’Amazzonia e ora lavora a stretto contatto con le comunità indigene. Ci ritroviamo alle 7 presso la Pastoral, prepariamo il fornello, portiamo pentole e una miriade di cucchiai (che qui sono l’unico utensile da tavola accettato) e partiamo per la comunità. Durante il lungo viaggio in macchina, Cristian mi racconta del Parco dello Yasuní, del Cuyabeno e delle ricchezze naturali che queste terre ospitano. Ascolto con ammirazione, mentre il paesaggio della foresta amazzonica si svela in tutto il suo splendore. La vista di quegli oleodotti che si estendono lungo la strada è sempre un’amara delusione, ma ahimè, sto cominciando ad abituarmi.

Dopo un’ora di viaggio attraverso una strada accidentata e piena di buche, finalmente arriviamo. Abitualmente, per riunire i partecipanti, è necessario una serie di telefonate, ma gli abitanti kichwa di Puma Kucha sono puntuali come sempre. Ci accolgono con riservatezza, raramente fissando lo sguardo, e iniziamo la giornata. Non sappiamo mai cosa aspettarci dai controlli degli orti dei beneficiari; alcuni hanno successo, altri meno. Ma questa volta supera ogni aspettativa: le bietole sono cresciute rigogliose, il terreno abbonda di ravanelli giganti e lattuga fresca. Raccogliamo tutto e ci prepariamo a cucinare.

Oggi si cucina il panzerotto con proprio la loro bietola e formaggio, ricetta ideata dalla mia collega volontaria. Inizio a spiegare che questa è la nostra versione italiana dell’empanadas de viento e spiego loro che significhi panzerotto, ridiamo insieme all’idea di un’empanadas con la pancia grossa. Laviamo, tagliamo e cuciniamo la bietola e le altre verdure dell’orto, preparando panzerotti e insalata per accompagnare. Cerco di spiegare loro il procedimento, suscitando qualche risata a causa del mio spagnolo incerto. Il chisme (il pettegolezzo) in kichwa si fa sentire, ma lo prendo come segno positivo. Le risate sono sempre un buon segno per me, anche se sono io l’oggetto di divertimento. In meno di un’ora, con poche istruzioni, abbiamo i nostri panzerotti pronti per il desayuno.

Quello che apprezzo di questo gruppo è che sono persone di poche parole, non inclini alla chiacchiera, ma dedite al lavoro comunitario. Sembrano quasi guidare me, invece che il contrario. Mangiano tutto con gusto, apprezzando sia l’insalata che i panzerotti, e gradiscono particolarmente l’aggiunta di scorza di limone nel ripieno, un tocco che nemmeno io conoscevo (sempre idea della mia collega sarda). Non contenti, finiscono persino il formaggio e la bietola avanzati dal ripieno. Racconto loro di altri modi per cucinare la bietola, seguendo le tradizioni della mia abuela e di mia madre. La ricetta sembra avere successo.

Terminata la mia parte, passiamo alla preparazione dello Chef, momento in cui mi rilasso, ascolto attentamente e cerco di imparare. Questa volta, sono le ragazze a farmi ridere: lo chef aveva suggerito di tagliare le verdure più finemente, e ognuna di loro ha pescato ciascun pezzettino di cipolla, pomodoro e cetriolo dalla bacinella e lo ha ritagliato con meticolosità, seguendo il consiglio. Le prendo un po’ in giro per questa loro precisione, e ridiamo insieme. Sembra che le abbia conquistate, il mio timore principale quando conduciamo i seminari è sempre quello di non riuscire a stabilire una connessione con i beneficiari, ma oggi sono felice. Mentre alcune ragazze tagliano la yucca con invidiabile precisione, un ragazzo della mia età, Felix, cuoce pezzi di tilapia su una griglia improvvisata, composta da stecche di palma toquilla. Mi racconta che il pesce non è di buona qualità da queste parti, poiché il fiume è inquinato dal mercurio. Questa notizia mi rattrista; non ho ancora chiaro chi stia scaricando quale sostanza e per quale motivo, ma sin dall’inizio del mio soggiorno qui, ho capito che questo territorio meraviglioso è stato ingiustamente sfruttato da attori esterni, con effetti devastanti. Tuttavia, vedo in gli occhi di Felix il desiderio di resistere, e questo mi rincuora.

Terminata la preparazione dei pasti, il pranzo è pronto: ceviche di tilapia con verdure dell’orto, tilapia alla griglia con yucca e platano, e un brodo piccante cucinato utilizzando testa e coda del pesce. Mangiamo e beviamo la chicha che mi hanno offerto all’arrivo, una bevanda alcolica a base di yucca fermentata. Ha un sapore particolare, che richiama il formaggio e altro ancora; so già che il mio stomaco avrà difficoltà a tollerarla, ma è buonissima e ne faccio volentieri scorta. Il pranzo è un momento di gioia, condividiamo conversazioni e mi insegnano alcune parole in kichwa, che purtroppo dimenticherò presto. Dopo un discorso di chiusura da parte del mio responsabile, ci prepariamo a tornare a casa. Nel salutare, mi rendo conto che sono più affettuosa del solito; mi sono affezionata a questi meravigliosi individui. Loro, invece, mantengono la loro riservatezza e mi offrono la mano distrattamente, senza mai sostenere lo sguardo.

Durante il viaggio di ritorno verso quella che da tre mesi chiamo casa, rifletto sulla giornata trascorsa: su ciò che è stato detto, sulle domande che avrei voluto fare ma che ho trattenuto per paura di essere fuori luogo, di non comprendere appieno. Mi chiedo quale impatto possa avere una volontaria come me in questi brevi momenti passati insieme a loro e quanto sia simile all’effetto che loro hanno su di me, che è molto profondo. Chissà se, alla fine dell’anno, sarò in grado di trovare risposte soddisfacenti o di cogliere qualche sfumatura della complessità di questa regione e delle sue genti. Nel frattempo, so che domani è un altro giorno, un’altra sveglia alle 5 del mattino, un’altra opportunità di scoperta. E io già non vedo l’ora che sia domani.

 

 

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