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TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI SOFIA

“Una storia, un albero, un gioco” di Sofia Esposito, Tena (Ecuador)

Siamo a Tena, una città di 30 mila abitanti della regione nel Napo, che si trova alle porte dell'amazzonia equatoriana. Noi volontari lavoriamo in diverse scuole della provincia, e alcune si trovano fuori città, nelle cosiddette "comunità". Come sarà una scuola da queste parti? La scuola della comunità di Huamaurco non la potevo immaginare più essenziale di così. Ci troviamo davanti a due strutture in legno immerse tra i banani e un piccolo orto. La scuola ospita circa 30 studenti in tutto. Da questi bambini imparo come si può vivere in armonia con l'ambiente circostante. Chi se non loro può godere delle bellezze naturali che li circondano senza sfruttarle né distruggerle? Arrampicarsi su un albero durante l'intervallo diventa il gioco di tutti, i più grandi arrivano in alto, i piccoli li vogliono raggiungere. I bambini imparano fin da piccoli a darsi una mano e prendersi cura l'un l'altro.

Nonostante la riservatezza che ritrovo anche negli adulti, il senso di comunità e fratellanza è forte. Lo vedo dal modo in cui condividono le matite colorate e da come chi termina per primo di copiare le parole dalla lavagna si alza per aiutare chi non ha ancora finito. Ogni mattina a scuola, prima di iniziare la lezione di inglese, ci sediamo tutti in cerchio e leggiamo un racconto. Leggiamo storie di animali, storie in rima, storie di amicizie particolari tra un uccellino e una montagna. I bambini si siedono uno sopra l'altro per avvicinarsi a chi legge e guardare da vicino le immagini del libro. È un momento sacro, loro rimangono incantati dalle parole. Ai bambini piacciono le storie, anzi, anche agli adulti piacciono, solo che se lo dimenticano. Qui a Tena la maggioranza della popolazione è di origine indigena, la cultura e le tradizioni fanno parte della vita quotidiana. I kichwa conoscono tante leggende tramandate nel tempo che parlano della natura e della foresta. Sono molto grata per aver ascoltato il cuento del diablo e delle arenillas (insetti della sabbia che riempiono le rive dei fiumi) da Serafina, la signora che ci insegna a usare la ceramica, e di aver sentito da Eliceo (tecnico di Engim) le storie sulla creazione della luna e del sole che gli raccontava la sua abuela.

Se da un lato con i bambini mi sembra così facile interagire, dall’altro questo luogo mi chiede di avere tanta pazienza. Lo capisco osservando le persone del posto, che ne hanno da vendere e ne fanno una virtù. Ogni cosa avviene con il suo tempo; sembra un tempo molto dilatato spesso, ma questo mi fa rendere conto di quanto serenità e calma vadano a braccetto. Quello che a me sembra lento, qui è normale, Sono a contatto con un'altra maniera di vivere, dove i modi di comunicare e le abitudini non sono gli stessi ma non per questo sono sbagliati. La scuola di Spiller, che ospita studenti con disabilità, è rimasta chiusa per tre mesi, a causa di lavori di ricostruzione del tetto. Il preside ci aggiornava sulla situazione. Se inizialmente le attività dovevano riprendere dopo tre settimane, quest’ultime sono diventate quattro, poi sei, e infine mesi. Ci siamo dovuti reinventare e abbiamo iniziato a fare visite domiciliari ai bambini. Per settimane sono andata a casa di Gael e Valentin, due studenti di otto anni, e abbiamo dipinto, giocato, fatto i compiti, ballato, gonfiato i palloncini. Avere pazienza significa accettare che le cose non vanno sempre come dovrebbero, che se le attività ritardano le svolgeremo più avanti, che se Valentin e Gael non possono andare a scuola i professori si inventeranno un modo per farli studiare comunque.

Che cosa faranno questi bambini dopo? È inevitabile porsi questa domanda in quanto vedo con i miei occhi le opportunità che il contesto in cui vivono gli offre. Ed è inevitabile riflettere sul mio ruolo qui. Senza pretese, mi rendo conto che quello che facciamo quotidianamente in questo luogo che è pieno di contraddizioni non può che essere contraddittorio, ma allo stesso tempo non sarà mai tempo perso.

Mi fece sorridere un giorno in classe in cui José Luís (sette anni) ci chiamò gringos; perché sì, siamo volontari, maestri, ma prima di tutto siamo bianchi, ci vestiamo con vestiti più belli e sappiamo l'inglese. Quindi sì, se possiamo insegnare l'inglese per permettergli di comunicare in un'altra lingua, se possiamo farli divertire con dei giochi nuovi e imparare da loro quelli che non conosciamo, e se possiamo semplicemente condividere tempo insieme, comunque sia, ne sarà valsa la pena.






 

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