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TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI LORENZA

Memorie di un futuro possibile”, di Lorenza Bruschi, Medellin (Colombia)

C’è un eco che attraversa ogni angolo della città, una presenza invisibile ma palpabile, che vive nel vuoto lasciato da chi non c’è più, da intere famiglie sradicate dalla violenza. Quest’eco riverbera nelle strade di Medellín, riflettendo ferite che non appartengono solo alla storia personale delle persone, ma che si intrecciano con quella di un’intera terra. Anche chi non ha vissuto direttamente gli anni più duri del conflitto ne porta comunque i segni, in un intreccio di storie tramandate, racconti sussurrati, e una sfiducia latente nelle promesse di pace.

È un’eredità di violenza che avvolge tutto e porta con sé il peso di anni di conflitto che hanno lasciato cicatrici profonde, visibili e invisibili. In questi tre mesi mi sono chiesta a più riprese se esistesse una storia diversa, fatta di resilienza e speranza, tra le ferite ancora aperte.

Questa memoria collettiva, che si è sedimentata nelle famiglie e nelle comunità, influenza il modo in cui questi giovani si relazionano con il mondo e con sé stessi. La violenza non è solo un fatto storico, è diventata una componente pervasiva del quotidiano, una presenza che continua a insinuarsi nei gesti, nelle paure, nei silenzi, e nell’incapacità di immaginare un futuro con un altro paesaggio. Anche chi non ha vissuto direttamente gli anni più duri del conflitto ne porta comunque i segni, in un intreccio di storie tramandate, racconti sussurrati, e una sfiducia latente nelle promesse di pace.

Eppure, in mezzo a questa eredità ingombrante, c'è una forza che pulsa, una voglia di cambiamento che emerge dal desiderio di riscrivere la storia del territorio. In tanti gesti emerge una lotta silenziosa per un’identità che non sia definita dalla sofferenza.

Un desiderio di riscrivere le proprie vite. Le ferite della guerra rimangono presenti, ma il desiderio di rinascita pulsa con forza. Un’energia creativa che si manifesta nelle arti, nelle iniziative sociali, nell’impegno comunitario e nei più piccoli gesti di resistenza che cercano di costruire un futuro diverso.

Nonostante resti difficile ignorare la memoria del conflitto, proprio come nella letteratura colombiana, passato e futuro si fondono, i traumi si trasformano in nuovi linguaggi, in nuove immagini di sé e del mondo. La volontà di resistere, di farsi sentire, anche se le parole a volte faticano a uscire. E in quella volontà c'è qualcosa di più che la semplice sopravvivenza: c’è un grido silenzioso per una vita piena, una vita che non sia solo fatta di ricordi dolorosi, ma di sogni vissuti. ENGIM si colloca qui, nell'intercapedine dei sogni dei più giovani, in uno spazio di speranza che emerge tra le difficoltà e le sfide quotidiane.

E così, questa gioventù che porta addosso le cicatrici del disincanto guarda all’orizzonte con occhi attenti cercando un nuovo modo di appartenere, un terreno fertile dove radicare la propria identità. È come se la violenza che li ha segnati avesse aperto in loro uno spazio ancora più vasto per immaginare un mondo diverso e più giusto. Ogni sguardo, ogni passo, è una parola che compone un racconto di resistenza, un racconto che non si lascia definire dal dolore, ma si apre, costante e tenace, a nuovi paesaggi.

E allora mi trovo a chiedermi quale sia il mio ruolo in tutto questo. Qui, immersa in una realtà che mi è così lontana eppure ora così vicina, sento il peso del mio privilegio e della distanza da un dolore che non è mai stato il mio. Non è facile "fare il bene e farlo bene" quel motto che suona chiaro e semplice, ma che in queste strade prende un significato denso, complesso.

Eppure, sento che, forse, la mia possibilità di azione sta proprio qui, nella semplicità dell’esserci, nel coltivare con pazienza uno spazio dove questi ragazzi possano pensare a un domani che non sia solo una fuga, ma una ricerca di un futuro autentico. Come volontaria ENGIM il mio ruolo qui è rendere quel futuro meno astratto, più accessibile.

 

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