TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI ROSETTA
“Espira emozioni, inspira vita” di Rosetta Gargiullo, Tena (Ecuador)
A volte, a fine giornata, mi ritrovo seduta al tavolo fuori dalla cucina del Bonuchelli, una Pilsner in mano, sulla quale lattina c'è scritta la quantità in centimetri cubici anziché in millilitri, quindi la lattina riporta 293 cm3. Perché qui è diverso. Diverso è il modo di misurare, diversi sono i modi di parlare e di esprimersi, i gesti, come l'impressionante capacità dei Kichwa di indicare e comunicare solo con movimenti della bocca.
Diversi sono gli odori che mi avvolgono e i sapori che mi stanno attraversando il palato. E mentre mi godo il pensiero di questa diversità, sotto una luna che continua a sembrami anche lei diversa da come l’ o sempre vista, sento i suoni delle creature che abitano la notte, qualche clacson in lontananza e qualche canto della chiesa qui a fianco ma soprattutto rospi, grilli e insetti… e poi i gechi che sembra se la ridono sempre nei momenti più opportuni. Quando mi alzo per dirigermi in camera a dormire, i gechi iniziano a ridersela. Salgo in camera, mi metto a letto e par alcuni minuti – a volte ore - nel buio infinite sfumature di verde mi attraversano gli occhi, forse i gechi sapevano che non sarei riuscita a dormire facilmente.
Leggendo le altre testimonianze ho visto che molti hanno già descritto le giornate qui a Tena e nell' Amazzonia, in modi che non mi spiego come, ma riescono a trasmettere u ottima percezione di quello che è questa dimensione in cui ci troviamo a vivere un anno; poco però ho letto sulle notti qui, in cui, nonostante l’oscurità, la vita vibrante e esplosiva della Selva si fa sentire. Chiudi gli occhi e continui a vedere impossibili sfumature e dimensioni di verde, immagini fluide e potenti come i fiumi che scorrono in questa giungla.
Se li apri e il cielo è terso, vedrai le stelle che brillano di magia e la luna che riflette un’energia percepibile sulla pelle. L' 'incidenza" luminosa qui è limitata all’agglomerato urbano di Tena, "contaminato", irrotto dalla selva amazzonica, che cerca di riprendersi i suoi spazi, mentre il cemento tenta invano di contenerla. Cammini per strada e i fumi di scarico delle macchine, delle mote sotto sforzo per i 6 passeggeri, le “trashissime tiendas” che vendono le cose più improbabili e spesso inutili che tu possa immaginare, infiniti comedores, e musiche diverse emesse da enormi altoparlanti, posti anche a meno di mezzo metro uno dall’ altro, si mescolano in uno scenario da metropoli.
Basta voltare l’angolo e la natura, così detta come se noi fossimo altro da lei, mi ricorda chi comanda davvero. Non di rado invece potresti essere svegliato nel cuore della notte dalla danza scatenata dei lampi e dei fulmini, il rombo dei tuoni, e dalla pioggia che violenta e sovrasta il suono della notte. Una cosa, a proposito, che non si dice spesso: fa anche “freddino” a Tena, di sera, di notte o all’ alba. Ma non portatevi lenzuola, ce ne sono innumerevoli qui al Bonuchelli, eredità dei generosi volontari precedenti, generosi senza dubbio perché si lascia molto di ciò con cui partiamo, per far spazio a molte altre cose che, da qui, ci portiamo, letteralmente e metaforicamente.
Infiniti prodotti di artigianato ancestrale, sicuramente shigras, un tradizionale tipo di borsa fatta di Pita o Chambira, entrambe piante della selva, che potrete veder crescere e trasformarsi in filo per tessere le meravigliose artesanìas. Tutti i possibili sapori e odori che vorreste non lasciare mai una volta che ne verrete a contatto. Ma anche spazio metaforico, quello dentro di noi, che riordiniamo e arricchiamo durante questo anno, per riempirlo di una marea di tante cose che ancora non mi spiego. Ma la bellezza sta proprio nel domandarsi, spaziare con la mente, valutare cose che prima pensavamo impossibili, lasciandosi violentare dalle onde che si infrangono sui nostri fondali, lasciandoci plasmare.
Al mattino, scendendo le scale che portano in cucina e poi in terrazza, c'è il sole di fronte a me, nella cornice di una finestra fatiscente con appena un essenziale zanzariera. Solo per pochi attimi, all’ alba, sempre intorno alle 6 tutto l'anno, il sole si mostra su una coltre di nubi che avvolge la foresta attorno casa, con colori che non saprei pronunciare, per poi essere subito ricoperto dalle stesse nubi che, diradandosi, si sollevano e lo nascondo, per farsi rivedere e sentire con buone probabilità attorno al medio dia, con tutta la sua vicinanza all' equatore.
Una coltre di nubi che dovrebbe cambiare la sua posa e movimento nella stagione delle piogge che però, purtroppo, non arriva ancora. Metto a bollire la Guayusa e la Canela, non quella che siamo abituati a conoscere, ma foglie di un albero che, per il suo profumo, i coloni battezzarono cosi. Altra cosa certa è un piatto con un mix di frutta diversa ogni giorno, per la diversità che la natura offre... sempre poi grattugio una radice di curcuma su qualsiasi preparazione, si trova fresca tutto l'anno, cresce nelle Chakra, quei sistemi agroforestali ancestrali curati dalle donne Kichwa, ne sono incantata al punto che convivo da 6 mesi con una mano a volte gialla a volte giallissima. La curcuma oltre ad essere una medicina, qui è apprezzata per il suo profumo e per il suo colore, uno dei principali usati in antiche e nuove tecniche di tinture naturali.
Attorno alle 7 spesso entra dalla porta della cucina, Eliseo uno dei tecnici ENGIM, puro Kichwa, vive a Campococha una comunità a quasi un'ora da Tena in macchina, abbastanza di più in bus (si qui i bus arrivano nei posti più inimmaginabili della foresta). Mentre io con rituali mattutini lenti e automatici cerco ancora di svegliarmi, lui è veglio in media già da 2 ore e quando varca quella porta, anche la mia giornata e quella degli altri mattinieri si accende.
Più tardi arriva Jeyson, fratello di Eliseo e tecnico addetto al mio progetto, ci comunica o ricorda il menù con le attività del giorno, mai le stesse del giorno prima, né di quello prima, né di quello prima ancora; ogni giornata è un’incognita e a volte può essere stressante. Il tempo così sembra che mi stia scorrendo in piena addosso. Ma le circostanze, le esperienze, gli incontri, le scoperte che questa imprevedibilità mi ha fatto vivere ripagano generosamente.
Il menù del giorno potrebbe offrire una mattinata all’ orto della comunità di Ongota. Io e un’altra volontaria con altre 5 donne kichwa a machetate ripulivamo l’aria, trovando delle radici di yuca ci siamo messe a parlare della chica, una bevanda fermentata essenziale, e ci siamo sedute all’ ombra di foglie di platano a bere la chica del giorno prima. Poco dopo eravamo nel pollaio, con il marito di una delle donne arrampicato su un albero di 20 metri che ci lanciava grappoli d’ Uva de monte. Appollaiate sotto alberi di cacao, abbiamo chiacchierato, riso e gustato chicchi d’ uva in un tempo sospeso, fatto di semplicità e connessione. Siamo ritornate a lavorare: chiodi, martelli, machete, mani che sistemano le camas in vista della nuova siembra, occhi che pensano già al prossimo raccolto.
Nelle giornate di riforestazione invece, nel donare piante a chi ha deciso di ridare vita alla propria terra, nel conoscere persone che, investono in boschi secondari e primari, ho la possibilità di immergerci in ecosistemi dove il tempo si dissolve e rimane solo il respiro della foresta. Il suono dell’acqua è realmente ovunque, fiumi grandi o piccoli, sono capillari nell’ irrorare di vita ogni dove, dove sono visibili, e dove sono invisibili, finchè il tuo stivale sprofonda “de una” fino a far entrare il fango nello stivale, magari appena iniziato il cammino verso la finca, che non si sa mai a quanti km di “strada” sarà. Camminando a testa bassa osservando ogni tuo prossimo passo, una radice ti blocca, alzi lo sguardo, collo inclinato a 90°, è un Ceibo. Il tempo si ferma e lo spazio non esiste più. Le sue radici sono talmente alte da formare cavità alte come mura. Sembrano case, quasi più di quelle con i tetti in costruzione e finestre che se ci sono cadono a pezzi, quelle che diresti mai finite, ma per molte persone qui le cose sono finite cosi. La riforestazione è una finestra su realtà diverse che oscillano tra la conservazione dell’ambiente e le necessità quotidiane, tra la memoria, la tradizione e la necessità di cambiamento.
E mentre ci dirigiamo alla prossima finca ho davanti a me un orizzonte multidimensionale fatto di una moltitudine di sfumature verdi e mi chiedo se le mie piccole azioni abbiano davvero un impatto. La foresta ci chiama a liberarci dall’ illusione di poter essere isole, a ritrovare una dimensione più vera e liberare il senso del magico, facendoci sentire beatamente piccoli, perché piccoli siamo e non perchè parametri socio-economici ci fanno sentire tali.
Con altri due volontari del progetto ambientale si parla spesso di compost, uno di loro mi ha prestato un libro, in cui ho letto “il compost è un modo di osservare e raccontare la terra che può riparare”. E in fondo, non è questo che fa il compost? Accumula, trasforma, rigenera. È una materia viva, nata da piccoli frammenti che si intrecciano in una nuova possibilità. Fare compost non è solo nutrire la terra, è un modo di guardare, di stare nel mondo, di accettare che niente esiste in isolamento, ma tocca muovere lo sguardo e riconoscere che esistiamo in relazione a tutto ciò che ci circonda.
Ci insegna l’interdipendenza, la “simpoiesi—quel "fare insieme" in cui l’identità individuale si dissolve per lasciare spazio a qualcosa di più grande.
Non so se vedrò mai il risultato di quello che faccio, ma ho capito che il punto non è questo. Il punto è esserci. È il processo, il legame invisibile che si crea tra le persone e la terra. È il riconoscere che molte persone piccole, in luoghi piccoli, facendo cose piccole, contribuiscono al nutrire il terreno per il futuro.