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CHIUSURA DELLE SCUOLE: NECESSITÀ O MANCATA INTENZIONE DEL GOVERNO ECUADORIANO?

Di Francesca Bosia. Giovedì 12 marzo 2020 il Ministero del Governo e dell’Educazione ha annunciato la chiusura delle scuole in tutto il territorio ecuadoriano, a causa dell’emergenza sanitaria. Fino a quel giorno erano stati registrati 17 casi di COVID-19. La tempestività di tale decisione potrebbe essere giustificata dalle allarmanti notizie provenienti dall’Europa, dove per altro molti stati avevano ritenuto di primaria importanza questo intervento per frenare la propagazione del virus.

Il COVID ha iniziato poi a colpire anche l’America Latina. I suoi Paesi sono stati devastati dalla pandemia, soprattutto per il disagio sociale ed economico che ha creato. Ora però il numero di contagi, ormai stabile da mesi in Ecuador, non rende giustizia del poco sforzo da parte del governo e dei singoli istituti per cercare di riattivare il servizio.

Ad ottobre solo 7 unità educative avevano presentato il piano di ritorno a scuola, che era stato richiesto dal ministero: lo 0,06% delle strutture presenti nel Paese (Primicias).
La scuola è un luogo di aggregazione fondamentale e unico per la formazione di un bambino, dove può crescere sperimentando amicizie, appassionarsi ad una tematica o un concetto, incontrare gli altri per conoscere sé stesso. Qui si impara a vivere nella società con le sue complesse dinamiche, ad aprire gli occhi sul mondo attraverso i libri, a sviluppare quelle competenze che permettono di diventare attivi e consapevoli nella strutturazione del proprio futuro.

Per più di 9 mesi si è cercato di realizzare lezioni a distanza, che prevedevano la successiva consegna dei compiti assegnati su una piattaforma: “Carmenta”. Moltissimi studenti disattendono tale richiesta, specialmente per quanto riguarda le scuole rurali, cui solo il 21% dei beneficiari può contare sull’ accesso ad internet (Primicias).

Il Ministro dell’educazione Creamer ha quindi iniziato a proporre approcci differenziati per questi contesti. Si tratta, infatti, di realtà piccole e caratterizzate da una condivisione costante nel quotidiano, in cui la presenza dei bambini nelle scuole non rappresenta un rischio aggiuntivo di contagio. Ho potuto fare esperienza diretta della diversa strategia adottata, rispetto a quella delle scuole cittadine, grazie al Servizio Civile che sto svolgendo in una di queste comunità indigene nei pressi di Tena, capitale del Napo. Qui gli insegnanti si recano nelle strutture per consegnare a mano i compiti da eseguire, per poi ritirarli la settimana seguente.

È solo da un mese che ho iniziato il progetto, che ha lo scopo di fornire un supporto scolastico per questi bambini. Non è sicuramente abbastanza per comprenderne a fondo le dinamiche, ma la mia impressione è che siano abbandonati a sé stessi. Credo inoltre che l’emergenza sanitaria abbia solo reso più evidente questa loro condizione già preesistente.

I compiti assegnati fanno pensare che i professori non abbiano un’idea precisa del livello di sviluppo delle competenze dei loro allievi. La cura con cui li redigono sembra esprimere un coinvolgimento piuttosto basso nell’esercizio di questa delicata professione. Vengono destinati brani da leggere, cui manca l’inizio o la fine, a studenti che frequentano il settimo grado e hanno ancora grosse difficoltà di alfabetizzazione, testimoniando poca attenzione verso la creazione di quella curiosità che può stimolare ad un miglioramento. Spesso sono inserite le stesse schede a distanza di una settimana. Quando provano a farlo notare, vengono incolpati di essersi sbagliati ed è sottolineata l’importanza di non contraddire il docente. Le richieste risultano troppo frequentemente poco chiare e gli argomenti trattati mancano di una progettualità.

È indubbio che non sia facile tessere le complesse trame educative solo attraverso esercizi settimanali, ma la preparazione e il comportamento dei bambini fa propendere nel ritenere che le problematiche risalgano al tempo in cui le lezioni potevano contare su un normale svolgimento.

A metà dicembre il governo ha richiesto ai professori delle scuole rurali di svolgere 8 ore settimanali di lezioni in presenza. Dei due insegnanti che ho avuto modo di conoscere, uno ha deciso di ignorare tale richiesta, mentre l’altro la adempie in modo scostante. Accade che i bambini si rechino a scuola senza sapere se quel giorno parteciperanno ad una lezione o se il loro maestro farà solo una rapida comparsa per distribuire i compiti, su cui non riceveranno feedback né correzioni.

Nelle ore passate in classe ad analizzare le consegne, per provare a comprenderle insieme, mi è parso esserci poco interesse per il loro reale apprendimento. Devono argomentare riguardo alle ragioni per cui in Sud America si parla il castigliano, ma non hanno neanche idea che esista una nazione chiamata Spagna. È richiesto loro di redigere un brano sulla libertà di coscienza senza avere avuto alcuna introduzione a concetti tanto articolati. Ricevono lunghe pagine di esercizi sui multipli, ma hanno ancora dubbi su come si sommano due numeri. Imparano molto bene a copiare dalla lavagna con una bella grafia, a stare fermi al banco il più possibile e a ripetere mnemonicamente le tabelline. I più bravi sono ai primi posti, quelli con qualche difficoltà vengono lasciati indietro. La loro frustrazione non li spinge nemmeno a provare a completare i compiti, facendoli compilare dai fratelli più grandi o lasciandoli in bianco.

I bambini non sono abituati ad essere interpellati. Nessuno insegna loro a pensare, a riflettere, a creare, a trovare i propri talenti. Non vengono guidati a comprendere le ragioni per cui è bello imparare, a capire come mettere in pratica nella vita reale tutte queste nozioni. Non è concesso spazio per la costruzione di un proprio pensiero, per formare ed esprimere le proprie idee.

Inizialmente trovavo molto sconfortante la difficoltà di riuscire a stimolare un dialogo con loro. Un giorno una bambina mi ha detto che se parlano troppo poi il maestro gli tira le orecchie. E quindi come possono imparare ad apprendere se non vengono considerati loro i protagonisti? Come possono apprendere ad imparare se non sono coinvolti nella curiosità della scoperta?

Sarebbe estremamente sbagliato modellare la figura di un professore ecuadoriano sull’esempio dei pochi che ho potuto conoscere. Il 5,5% degli insegnanti, però, non ha mai ritenuto necessario avviare le classi virtuali: alcuni affermano non sia una loro responsabilità (El tiempo). Per questa ragione dal 4 gennaio il governo ha imposto ai docenti di svolgere le lezioni recandosi direttamente nelle strutture, anche laddove queste non facciano parte di quelle 204 scuole pilota che hanno presentato un piano per permettere anche agli studenti di tornarvi.

Come maestra mi addolora pensare che questo lavoro non venga scelto con il cuore, che in molti non riescano a gioire di quella meravigliosa scintilla che illumina gli occhi di tutti i bambini. Riuscissero a vederla, amerebbero l’idea di lottare per farla brillare anche in condizioni difficili. Questa forse è una conseguenza dell’importanza che viene conferita al ruolo dell’educatore e all’istruzione in generale. Il fatto che solo dopo 10 mesi di chiusura si stia pianificando una riapertura, pare indicare che sia ritenuto un settore di serie b. Non c’è consapevolezza sull’evidenza che i bambini saranno gli adulti di domani: se non viene data loro l’importanza che meritano, come potrà essere florido il futuro del Paese?

Sicuramente esiste una buona educazione in varie scuole dell’Ecuador, ma la comunità che sto conoscendo è stata lasciata indietro. Gli insegnanti appassionati, i primi nelle graduatorie, non scelgono questi posti lontani. Il risultato è che gli ultimi sono costretti nella loro decisione, si sentono svalutati e non riescono a vedere la bellezza del contributo che potrebbero dare.

Forse ai politici fa comodo questa situazione. Girano per le comunità cercando di comprare il voto di persone povere e ignoranti, regalando alcol a quei genitori e caramelle a quei figli, che non hanno avuto modo di imparare a disprezzare un simile atteggiamento. Guadagnano potere grazie ai quei cittadini inconsapevoli che li votano a causa della fame e della mancanza di istruzione. A tutti dovrebbe essere data la possibilità di imparare a scegliere, anche di scegliere di non voler imparare. Dovrebbe però spettare al governo e agli insegnanti trovare una strategia per incuriosire gli studenti al piacere di conoscere. Certamente la poca attenzione data alla riapertura delle scuole e ai bisogni dei bambini, non è una di queste.

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