LE DISUGUAGLIANZE CHE SCUOTONO IL PIANETA
In Bolivia, Cile, Ecuador, Brasile, Perù, Libano ed Irak, fette consistenti della popolazione sono scese in piazza per manifestare insoddisfazione, e preoccupazione, per le politiche economiche e sociali dei rispettivi Paesi. In Ecuador - tanto per fare qualche esempio -, le dimostrazioni che hanno scosso il governo di Lenin Moreno sono iniziate con la fine dei sussidi per l’acquisto di carburante. In Cile, il Paese forse più ricco del continente, il presidente Sebastian Pinera ha dichiarato lo stato d’emergenza per la prima volta dopo la dittatura di Pinochet. In Libano - dove oltre il 40 per cento della popolazione è costituito da rifugiati siriani ed irakeni -, inflazione, tasse ed economia in ginocchio, alimentano una protesta di giorno in giorno sempre più politica, che chiede la fine dei partiti confessionali e l’apertura ad una società laica.
Come ENGIM, e cioè come organizzazione che da decenni opera in questi contesti, abbiamo iniziato ad interrogarci sulla natura di questo fenomeno, che, in alcuni momenti, è sembrato addirittura dilagante. Aldilà delle singolarità relative a ciascun Paese, ci sembra, infatti, che un “file rouge” leghi insieme le proteste di tanta parte del mondo. Questo comune denominatore è costituito, senza dubbio, dalle disuguaglianze economiche e sociali che, in un pianeta sempre più globalizzato, aumentano invece che ridursi. “I veri problemi che sono stati portati alla ribalta in molte aree del mondo, non sono legati ad inefficienze locali delle politiche o a fenomeni di corruzione, e nemmeno a richieste di maggiore crescita economica o sociale – spiega Francesco Farnesi, direttore di ENGIM internazionale -. Il problema di fondo che investe grandi aree di Sudamerica, Africa ed Asia, è l’incremento delle disuguaglianze, che ampliano a dismisura il divario tra quella piccola fetta della popolazione che aumenta la propria ricchezza, e la gran parte della restante, che, invece, è sempre più povera”.
Come attore della cooperazione internazionale, l’ENGIM si sente interpellato profondamente da questi movimenti, proprio perché i progetti di cooperazione internazionale hanno come scopo principale quello di ridurre le disuguaglianze. “Per fare questo – continua Farnesi - è necessario un impegno più forte, sia in termini di quantità che di qualità di risorse impegnate lungo il solco tracciato dall’Agenda 2030. Questa, nel definire un programma per porre fine alla povertà, pone la lotta contro le disuguaglianze tra i 17 obiettivi che, i 170 Paesi che hanno sottoscritto l’accordo, devono raggiungere nei prossimi anni”.
Riguardo questo obiettivo, il numero 10 dell’Agenda 2030, cresce il consenso sul fatto che la crescita economica non è sufficiente per ridurre la povertà, a meno che non si tratti di una crescita inclusiva e non coinvolga le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: “la crescita economica, sociale ed ambientale”.
La comunità internazionale ha fatto progressi significativi per sottrarre le persone alla povertà. Le nazioni più vulnerabili - i paesi meno sviluppati, i Paesi in via di sviluppo senza sbocco sul mare e i piccoli stati insulari in via di sviluppo - continuano a farsi strada per ridurre la povertà. Tuttavia, l’ineguaglianza persiste e rimangono grandi disparità di accesso alla sanità, all’educazione e ad altri servizi fondamentali. “È dimostrato che oltre una certa soglia, l’ineguaglianza danneggia la stessa crescita economica – conclude Farnesi -. Se non vogliamo impegnarci perché convinti che non sia una cosa buona, facciamolo allora perché ci conviene”.