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TESTIMONI DI SERVIZIO CIVILE: LA STORIA DI MARTINO

“Intervista a Doña Juanita” - di Martino Buran, Medellín (Colombia)

Doña Juanita, nome fittizio per preservare la privacy della protagonista, ha 72 anni ed è, almeno ai miei occhi, una delle signore più sorridenti del quartiere. Da quando mi sono trasferito a La Sierra, ogni nostro incontro è stato un’opportunità per una chiacchierata allegra, domande curiose e le sue immancabili benedizioni finali. La scorsa settimana ha accettato il mio invito a sederci per un caffè e rispondere alle mie infinite domande sulla storia de La Sierra e sulla sua vita.

Vive a La Sierra da quarantadue anni. Si trasferì quando ne aveva trenta e già due figli a carico, uno di otto anni e l’altro di appena quattro mesi. La terza nacque dopo sei anni dal trasferimento. Lasciò la città di origine, Puerto Valdivia, con i genitori, i fratelli e i figli. A decidere di trasferirsi furono i genitori, che vedevano in Medellin la possibilità di una vita migliore e più semplice.

Com’era il quartiere quando arrivaste a La Sierra?

“Quando arrivammo il quartiere era pura montagna, una barranca total (un grande burrone). Qui vivevano solo una decina di famiglie, era davvero noioso. Piano, piano arrivarono sempre più persone. Venivano, si compravano un terreno per circa 20.000 pesos [meno di cinque euro con il cambio di oggi N.d.R.] e lì costruivano le loro case. Soprattutto baracche. Più persone venivano e più familiari li raggiungevano nel tempo. Le famiglie venivano da tutto il paese in cerca di lavoro. Noi costruimmo una casa fatta di tavole di legno, piangevo moltissimo perché faceva tanto, tanto freddo. Non c’erano strade e quindi non potevano salire i bus. C’era solo una stradina in terra battuta, riuscivano a salire dei piccoli furgoni, come quelli dove si caricano i maiali. Non c’era luce, gas o acqua, se non quella della fonte. Per la luce usavamo le lampade a petrolio.”

Da chi compraste questo terreno?

“Mio papà comprò il terreno da un signore, non so chi fosse. Dopodiché costruimmo una casa in legno dove vivemmo per otto anni. In quella casa morirono mia mamma, mio papà e il mio fratellino. Poi iniziammo a costruire la casa dove ancora oggi sto vivendo.”

Che lavoro facevano i suoi genitori?

“Mia mamma si dedicava alla casa. Mio papà invece aveva un negozio qui alla Sierra: era un negozio molto bello e grande, tutti lo rispettavano. Quando morì, mio fratello prese in carico il negozio.”

E lei che lavoro faceva?

“Quando mia figlia già aveva quattro anni, iniziai a lavorare come domestica in una casa nel quartiere Belén. Lavorai là per trentadue anni e poi andai in pensione.” 

Com’è stato crescere dei figli a La Sierra? 

“La verità è che non mi posso lamentare proprio di niente, mi sembra che tutti e tre siano cresciuti bene. C’era una piccola scuola, grande quanto una casa [ride N.d.R.].”

Quando iniziò la violenza nel quartiere?

“Quando iniziarono ad arrivare persone dagli altri quartieri per rubare. Allora la gente di qua, la gente buona, diciamo così, ha detto: non possiamo permettere che vengano da altri quartieri per rubare quello che abbiamo qua. Dobbiamo darci una svegliata e prepararci. Così si formò un gruppo grande con armi e tutto. Lì iniziò, fu tremendo. Iniziarono a non far entrare la gente che voleva rubare e consumare droga nel quartiere. Venivano qui a La Sierra per rubare il cibo o addirittura direttamente i frigoriferi. Lasciavano le case vuote. Questo gruppo di difesa si formò tanto tempo fa, almeno trenta anni fa, forse più. Ma già è finito. Era una lotta tra buoni e cattivi. Oggi è già un’altra cosa, per non dire nient’altro. Posso dire quello che è successo prima, adesso no [ride N.d.R.]. Bisogna rispettare.”

Si vedevano persone armate per strada?

“[ride N.d.R.] Almeno venti o trenta persone, venivano con fucili tremendi. Era così. Loro si prendevano cura del quartiere.” 

Vedere questo gruppo di difesa del quartiere la faceva sentire più sicura?

“La verità è che non si sapeva se eravamo più sicuri o meno sicuri. Mi sentivo insicura perché faceva paura vederli, non si poteva uscire, si sentivano spari e magari uccidevano qualcuno. Allo stesso tempo mi faceva sentire più sicura perché non lasciavano entrare gente da fuori a rubare. A me non hanno mai chiesto niente e non hanno mai toccato nessuno della mia famiglia grazie a Dio. Furono anni impressionanti, molto difficili. Adesso siamo nella gloria.”

Quando finì questa situazione di violenza?

“Quando arrivò il lavoro finì questa pendejada! Circa dieci anni fa iniziò ad esserci molto più lavoro in città e nel quartiere. Da quel momento cambiò tutto: dopo tanti anni chiusi in casa, potevamo finalmente uscire senza paura. Anche la costruzione del metro-cable, circa cinque anni fa, cambiò tantissimo la vita del quartiere, in una maniera impressionante. Erano tutti contentissimi.”

Qual è la cosa che le piace di più della Sierra?

“Stare tranquilla, questa è la meraviglia del nostro quartiere. C’è un forte senso di comunità, qui siamo tutti uguali, ni mas, ni menos. Ci aiutiamo tra vicini. Siamo il miglior quartiere di Medellín [ride N.d.R.].”

E qual è la cosa che le piace di meno?

"Troppi cani che fanno la cacca per strada e il volume troppo alto della musica la notte, mi fa svegliare con il mal di testa. Però non farei mai a cambio con nessun’altro quartiere di Medellín, qui c’è l’aria pura e stiamo tranquilli. Infatti non c’è mai la polizia, perché non abbiamo bisogno di chiamarli. Ci aiutiamo tra di noi, non dobbiamo chiedere aiuto a qualcuno di fuori.”

Che pensa di noi italiani che veniamo a vivere a La Sierra o dei turisti stranieri che visitano il quartiere?

“Sono tutti i benvenuti e li trattiamo molto bene. Siamo felici di vedere turisti che vengono qui a camminare e si sentono sicuri. Aiutano anche l’economia del quartiere.” 

Lo ha visto il documentario del 2003 sulla Sierra?

“No. Quando iniziarono a parlare di questo documentario, non fui in grado di guardarlo. Noi abbiamo già visto tutto, non è necessario guardarlo un’altra volta su uno schermo. Perché dovrei guardarlo un’altra volta? Per avere ancora più paura? E sai chi lo fece? Uno statunitense. E credo che ci guadagnò anche dei soldi per farlo, o almeno così mi raccontarono. Non dico che il documentario fu solo negativo per il quartiere: è stato positivo che la gente sapesse quello che stava succedendo qui, però ancora oggi si crede che La Sierra sia un quartiere molto pericoloso e che le persone siano cattive, tutto ciò a causa del documentario. Hanno paura di venire qua. Anche se in realtà oggi siamo la gloria grazie a Dio. Sono orgogliosa del quartiere. Non cambierei questo quartiere neanche per soldi, sono felice qui.”

Mi sono dimenticato di chiederle qualcosa di importante riguardo La Sierra di cui mi vorrebbe parlare?

“Sì, la chiesa. Quando arrivammo, più di quarant’anni fa, non c’era. Veniva un prete dalla città a dare la messa ogni settimana, Padre Umberto. Fino a che formò una chiesa con quel poco che avevamo. La chiesa è molto importante per la comunità. Mai avremmo pensato che saremmo riusciti ad avere acqua, luce, gas e una chiesa nel quartiere. Adesso abbiamo tutto, persino le macchine. Manca ancora un pezzettino da raccontare. Più di trent’anni fa, quando ancora non eravamo tante famiglie nel quartiere, di tanto in tanto veniva qualche politico a regalare sacchi di sabbia e cemento in cambio dei nostri voti. Un giorno venne un politico e, quando arrivò la notte, si rese conto che le case erano illuminate da piccole lampade che riuscivano a malapena a fare luce sufficiente. Decise così di vendere la propria catenina d’oro per comprare un piccolo trasformatore con cui illuminare le case del quartiere. Fu una cosa molto bella. A quel punto anche l’impresa pubblica si rese conto che c’erano diverse case qua, così decisero di portare l’elettricità a La Sierra. Grazie alla lotta di questo signore, sono arrivate luce e acqua nel quartiere.”

Se dovesse descrivere La Sierra con una parola, quale sarebbe?

“Bien! [ride N.d.R.]”

Ci sono tanti modi di raccontare La Sierra. Ognuno ha la sua storia e la sua verità. Contano le parole che si dicono e quelle che si sceglie di non dire. Questo articolo si propone semplicemente di riportare, senza giudizio, il punto di vista di una signora che ha vissuto gran parte della sua vita a La Sierra, con le sue gioie e i suoi dolori. Ringrazio Doña Juanita per la disponibilità, la gentilezza e i suoi sorrisi affettuosi.

 

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